Un tempo la nascita di una vita rappresentava motivo di gioia. Oggi, al contrario, ne viene celebrata l’interruzione come “vittoria”, tanto da essere riportata con toni trionfalistici sulla maggior parte dei quotidiani. Fa molto discutere la legge sul suicidio assistito appena approvata dal Consiglio regionale della Toscana.
Vittoria, secondo la logica di chi ha dichiarato pubblicamente di essere favorevole ad «ammazzare chi è d’accordo a essere ammazzato»; sconfitta, invece, secondo il presidente della Conferenza episcopale toscana cardinale Paolo Lojudice: «Sancire con una legge regionale il diritto alla morte non è un traguardo ma una sconfitta per tutti». È del tutto prevedibile che, dopo l’approvazione della legge sulle Dat (2017), la sentenza della Corte costituzionale sulla depenalizzazione parziale del suicidio assistito (2019) e il voto in Consiglio regionale a Firenze l’11 febbraio, una legge simile a quella toscana possa essere approvata da altre Regioni e che si possa quindi aprire la strada verso il tentativo futuro di legalizzare l’eutanasia. Alcuni iniziano a distinguere tra “vita” e “non vita”, tra “degna” e “non degna”, tra il “morire con dignità” e il “morire senza dignità”, etichettando così, con soggettivi e giudizi arbitrari, condizioni di vita fragile. Ma chi stabilisce se una vita è degna di essere vissuta? Lo Stato? Una commissione medica?
L’allocazione delle risorse? La persona o i suoi cari? E chi si preoccupa di quali siano le ragioni per cui un paziente può formulare una richiesta suicidaria: senso di abbandono? Peso economico per la famiglia? La domanda di suicidio assistito nasce sovente dal rifiuto di continuare a vivere in condizioni di precarietà e grave sofferenza, ma stiamo molto attenti a non accettare il disumano motivo che una vita può essere interrotta “per pietà”.
Ci si chiede: come mai tanta solerzia per ridurre i tempi di attesa di chi richiede il suicidio assistito e non altrettanta per abbreviare le liste d’attesa di chi, al contrario, vuole vivere grazie a una rapida diagnosi e terapia? E ancora: perché la prestazione che procura la morte viene inserita nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), mentre non sono fornite determinate indagini diagnostiche e le relative terapie dal Servizio sanitario, che viene così svuotato della sua primitiva funzione di fornire salute e non di procurare la morte? E infine: perché non sono state applicate su larga scala in tutto il Paese le Cure palliative? Gli hospice in Italia sono poco più di 300, con circa 800 medici quando ne occorrono nel prossimo decennio almeno 3.500. In particolare, la Toscana a fronte di circa 3.700.000 abitanti ha 30 hospice con 206 posti letto: numeri non sufficienti ad assicurare una corretta copertura del territorio in materia di Cure palliative. Quando si trattano temi sensibili, come decidere se interrompere o meno una vita umana, non crediamo affatto poi che “la vita può essere messa ai voti “. Appare invece certo che, in un prossimo futuro, la richiesta di suicidio assistito supportato da motivazioni giuridiche non si limiterà solo a casi selezionati e circoscritti di sofferenza “insopportabile” ma si estenderà nel tempo ai più vulnerabili: disabili, anziani non autosufficienti, emarginati, malati terminali, disperati… Se un domani gli investimenti non fossero più sufficienti a garantire un’adeguata assistenza sanitaria perché non reperire le risorse eliminando le categorie più fragili? C’è da domandarsi allora se sia eticamente accettabile che una Regione si preoccupi di trovare strumenti e risorse per assicurare una “buona morte” e non piuttosto per garantire una vita dignitosa anche nella malattia a chi vuole vivere. Si dibatte spesso su autodeterminazione, accanimento e abbandono terapeutico: ma chi se non il medico, che conosce il paziente, la sua storia clinica, il suo vissuto, le sue fragilità fisiche e psicologiche, può essere in grado di capire il perché di un eventuale rifiuto della terapia, o ancor più di una richiesta di suicidio assistito? Dovere del medico è non di essere datore di morte ma, al contrario, di assistere il morente nelle sue necessità, assicurandogli un sereno distacco dalla vita terrena attraverso un’adeguata idratazione, una corretta terapia del dolore, un’idonea ventilazione e un’accurata igiene della persona, assicurando al sofferente il sollievo, la dignità e il rispetto per il proprio corpo. Non vogliamo sentir parlare di eutanasia per i nostri fratelli sofferenti ma piuttosto di eubiosìa (buona vita), cercando quindi di assicurare un fine vita sereno, nel rispetto della dignità del malato. Per far questo dovremo impegnarci a far sì che venga rispettata e applicata su larga scala la legge 38 del 15 marzo 2010 sulle Cure palliative per assicurare il controllo della sintomatologia e la migliore assistenza ai più deboli.
Il problema nell’affrontare le fragilità nel fine vita oggi non è estendere il “diritto” al suicidio assistito quanto creare presupposti che evitino di giungere alla disperazione e quindi a una richiesta di morte, attraverso l’accompagnamento a una fine dignitosa che unisca sofferente, medico e famiglia.
Stefano OJETTI
Presidente nazionale Associazione medici cattolici italiani (Amci)