Le sofferenze e la morte di Gesù: valore e significato

In margine all’intervento del dott. Beccarini, desidero aggiungere soltanto una rilettura di carattere spirituale e teologico delle sofferenze di Cristo e della sua morte, naturalmente soprattutto alla luce di testi biblici e dell’insegnamento della Chiesa. Peraltro il dott. non si è limitato a considerazioni di carattere medico, ma ha già toccato aspetti spirituali e morali, in riferimento ai testi evangelici soprattutto.

È necessario evidenziare che le sofferenze di Cristo e la sua morte trovano una descrizione di carattere profetico nell’A.T., soprattutto nei salmi (fine del III secolo a.c. l’ultima redazione) e nel libro del Profeta Isaia (765-VIII sec. a.c.), così che si possa dire che nella passione di Cristo si compiono le Scritture, come evidenziato nei Vangeli. Ad es. in Mt 26,54.56 (all’arresto di Gesù) o in Mc 14,49 (idem) o Gv 19,36-37 (circa il colpo di lancia e il non spezzare le gambe; cfr. agnello pasquale Es 12,46; Nm 9,12).

Il salmo 22 (21) fa una descrizione impressionante delle sofferenze e della gloria del giusto nella cui figura i cristiani hanno sempre visto il Cristo. All’inizio l’esperienza dell’abbandono, della completa solitudine di cui il dottore ha parlato come forma alta di sofferenza soprattutto spirituale/morale. Gesù fa sue le parole iniziali del salmo in cui il giusto si sente abbandonato perfino da Dio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato…”. È importante qui presentare una interpretazione di carattere teologico che la Chiesa ha sempre evidenziato: il peccato è sempre allontanamento–separazione dell’uomo da Dio, frutto della superbia, dell’egoismo e conseguenza della tentazione del Maligno; Gesù certamente è senza peccato, è il giusto per eccellenza in quanto figlio di Dio, ma porta si di sé i peccati di tutti gli uomini. Dice l’apostolo Pietro: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti» (1 Pt 2,24). E S. Paolo arriva ad affermare: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). Le parole pronunciate da Gesù non vanno dunque viste come un grido di disperazione e anche di rivolta contro Dio, come potrebbe sembrare, ma, vedendo il salmo in tutta la sua completezza, le parole di Gesù, mentre evidenziano da una parte la forza drammatica del peccato con tutte le sue tristi conseguenze, acquistano il senso di fiducia e di speranza, il salmo termina infatti con la lode a Dio per la sua fedeltà e il suo amore, per la sua risposta verso il giusto e quanti si uniscono a lui. Altri passi del Salmo sembrano proprio descrivere la passione di Cristo, come i vv. 7.8.9;15-19.

Parliamo perciò di eventi affrontati da Gesù liberamente e volontariamente – come già diceva il dott. – nella consapevolezza di compiere un disegno di amore di Dio per la salvezza di tutti gli uomini. La Lettera agli Ebrei afferma: «Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza» (Ebr 2,9-10). E ancora: «Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Ebr. 2,14-18). E più avanti: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchìsedek» (Ebr 5,7-10)… «Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso. La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre» (Ebr 7,26-28). Il dono che Cristo ha fatto della sua vita ha dunque la forza di purificare “la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente”, attraverso il suo sangue, e di stabilire un’alleanza tra Dio e gli uomini definitiva ed eterna e farci conseguire la promessa di una eredità eterna. «Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza…» (Ebr 9,28). «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice:
Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (Ebr 10,5-7; cfr. sal 40)
. Ciò descrive lo spirito con cui Cristo ha vissuto tutta la realtà della sua vita, in particolare la sua passione e morte.

Il libro del profeta Isaia, nella parte detta “Secondo o deutero Isaia” (cc. 40-55), introduce la figura di un servo del Signore: perfetto, adunatore del suo popolo e luce delle nazioni, che predica la vera fede e che espia con la sua morte i peccati del popolo ed è glorificato da Dio. Questa figura la Chiesa l’ha sempre vista riferita a Cristo, appunto come profezia di quanto in Lui si sarebbe compiuto. Alcuni versetti presentano appunto una descrizione davvero impressionante della passione di Gesù. Ad es. 50,6; 52,14.2b-12.

Questi canti ci offrono ancora la possibilità di leggere, come già detto prima, la sofferenza e la morte di Gesù nella luce di una missione che questo Servo ha accettato di assumere a favore di tutta l’umanità. Il peccato, il male presente nel mondo, genera divisione, separazione dell’uomo da Dio e degli uomini tra loro, genera oscurità, sofferenza profonda sia materialmente che moralmente, genera morte (soprattutto in senso morale). Cristo ha accettato di offrirsi, in obbedienza al progetto di misericordia e di amore del Padre che non ha mai abbandonato l’uomo peccatore, per essere strumento di riconciliazione, di unione, di luce per l’umanità, di perdono e di salvezza. Cristo si è fatto mediatore, unico, tra l’umanità e Dio Padre. Il castigo di cui parla il profeta, che si abbatte su di lui, non è da intendersi perciò – come già diceva Benedetto XVI – secondo la teoria della “soddisfazione” giuridica di S. Anselmo – ricordata all’inizio dal dottore -, ma nel senso che il peccato e tutte le sue conseguenze, di cui parlavo, sono ricadute su Gesù e Lui ha accettato ciò in un atto di amore e di altruismo radicale perché noi potessimo essere liberati dal peccato stesso e dalla morte. D’altra parte lo dirà Gesù stesso nel Vangelo, ad es. in Gv 15,13 «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici»; il dono della propria vita è visto come l’espressione più alta dell’amore, e Dio ha scelto di fare questo nel suo Figlio. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Lo stesso Gesù fa comprendere ai suoi discepoli che una vita può essere feconda, può generare buoni frutti, solo se è donata, se accetta di morire, piuttosto che conservarsi egoisticamente. È la legge del chicco di grano: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

Il Battista indica Gesù ai suoi discepoli dicendo: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Chiaramente viene richiamata la figura dell’agnello pasquale che gli ebrei immolavano e mangiavano nella celebrazione della Pasqua e il cui sangue, asperso sulle case, le preservava dallo sterminatore. Il sangue di Cristo, ben più prezioso, come già vedevamo nella Lettera agli Ebrei, può distruggere il peccato in modo radicale.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega:

604 Nel consegnare suo Figlio per i nostri peccati, Dio manifesta che il suo disegno su di noi è un disegno di amore benevolo che precede ogni merito da parte nostra: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10). «Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).

605 Questo amore è senza esclusioni; Gesù l’ha richiamato a conclusione della parabola della pecorella smarrita: «Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (Mt 18,14). Egli afferma di «dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28); quest’ultimo termine non è restrittivo: oppone l’insieme dell’umanità all’unica persona del Redentore che si consegna per salvarla. La Chiesa, seguendo gli Apostoli, insegna che Cristo è morto per tutti senza eccezioni: «Non vi è, non vi è stato, non vi sarà alcun uomo per il quale Cristo non abbia sofferto».

607 Questo desiderio di abbracciare il disegno di amore redentore del Padre suo anima tutta la vita di Gesù perché la sua passione redentrice è la ragion d’essere della sua incarnazione: «Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!» (Gv 12,27). «Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» (Gv 18,11). E ancora sulla croce, prima che «tutto [sia] compiuto» (Gv 19,30), egli dice: «Ho sete» (Gv 19,28).

609 Accogliendo nel suo cuore umano l’amore del Padre per gli uomini, Gesù «li amò sino alla fine» (Gv 13,1), «perché nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici» (Gv 15,13). Così nella sofferenza e nella morte la sua umanità è diventata lo strumento libero e perfetto del suo amore divino che vuole la salvezza degli uomini. Infatti, egli ha liberamente accettato la sua passione e la sua morte per amore del Padre suo e degli uomini che il Padre vuole salvare: «Nessuno mi toglie [la vita], ma la offro da me stesso» (Gv 10,18). Di qui la sovrana libertà del Figlio di Dio quando va liberamente verso la morte.

616 È l’amore sino alla fine che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di espiazione e di soddisfazione al sacrificio di Cristo. Egli ci ha tutti conosciuti e amati nell’offerta della sua vita. «L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti» (2 Cor 5,14). Nessun uomo, fosse pure il più santo, era in grado di prendere su di sé i peccati di tutti gli uomini e di offrirsi in sacrificio per tutti. L’esistenza in Cristo della Persona divina del Figlio, che supera e nel medesimo tempo abbraccia tutte le persone umane e lo costituisce Capo di tutta l’umanità, rende possibile il suo sacrificio redentore per tutti.

618 La croce è l’unico sacrificio di Cristo, che è il solo mediatore tra Dio e gli uomini. Ma poiché, nella sua Persona divina incarnata, «si è unito in certo modo ad ogni uomo», egli offre «a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale». Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a seguirlo, poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme. Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari. Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice.

«Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo». [S. Rosa da Lima]