La società ha bisogno di una medicina per la vita

Riflessioni del prof. Filippo M. Boscia, Presidente Nazionale AMCI, sulla proposta di legge sul fine vita approvata dal Consiglio regionale pugliese

 

FILIPPO MARIA BOSCIA – I problemi di ordine etico, deontologico e sociale che caratterizzano la vita professionale e l’azione del medico sono tanto più acuti e complessi quanto più si ha a che fare con situazioni che stanno tra la vita e la morte o che possono provocare nella loro dirompente esplosione profonde modificazioni nella vita di ognuno degli stessi attori e delle loro famiglie.

I progressi della Medicina e della tecnologia hanno in questi ultimi anni cambiato la capacità di agire e influire sul corpo umano e sui tempi della vita, dalla nascita alla morte, pongono alle equipe assistenziali tanti nuovi problemi.

Nell’arte medica è importante fornire un modello di cure basate sulla “miglior pratica corrente” soprattutto perché tale modello può rappresentare per lo staff medico un modello generale da prendere in considerazione per decisioni cliniche che richiedono profonda riflessione, ma ancor più (ed in particolare per coloro che hanno minore esperienza), un modello generale per prendere decisioni cliniche che richiedono azioni immediate.

Va precisato che in questi particolari casi di grande fragilità ed emergenza nessuna linea guida può rispondere globalmente a tutte le molteplici eventualità che si presentano e mai queste linee guida possono essere considerate un sostituto di una personalizzazione delle cure, orientando ogni sforzo nel senso di una vera e propria “medicina sartoriale” su misura, che agisce a tutto campo svolgendosi tra le varie esigenze dei fragili e delle loro famiglie.

Innanzitutto desidero precisare in questa autorevole sede che i problemi riguardanti il fine vita e la stessa vita, nell’aspro percorso del suo ultimo miglio, dovrebbero essere incanalati prioritariamente su altri binari di riflessioni e scandire positive scelte di eubiosia.

Innanzitutto dobbiamo riaffermare che non possiamo procedere tout court con leggi eutanasiche quando ancora occorre lavorare alacremente per rendere operativa su tutto il territorio nazionale la legge 38/2010, che tra l’altro richiede ampi e opportuni finanziamenti, ormai non più rinviabili.

Le cure palliative e la sedazione del dolore sono esigenze ineludibili che vanno attenzionate, sostenute, strutturalmente organizzate, finanziate e rese fruibili in ambiti ospedalieri, territoriali e domiciliari.

Viceversa sono passati 12 anni dalla legge 38/2010, ma siamo ancora all’anno zero e cosa veramente assurda nella realtà italiana non sono stati mai perseguiti nemmeno gli standard minimi su base macroregionale e nazionale.

Propriamente parlando, oggi anche in Puglia l’essere umano fa l’esperienza del morire in strutture che non garantiscono la “care”. In realtà è che ogni tipo di relazione è carente: sono in pochi a porsi il problema che la relazione di aiuto è l’essenza centrale ineludibile di ogni obiettivo medico orientato alla cura. Questa dolorosa realtà diventa la motivazione più sostanziale che fa partire e sostiene il disumano ragionevole, l’uccidere per pietà, ponendo assurde e mistificanti giustificazioni.

Medici e operatori sanitari vogliono riaffermare con forza che il disumano ragionevole, che serpeggia in moltissimi ambiti sociali, non deve per alcun motivo inquinare l’ambito medico-sanitario, ambito privilegiato ove medici ed operatori sanitari incontrano la sofferenza, incontrano pazienti gravemente fragili e feriti.

Occorre che gli ospedali siano ospitali: non possono continuare ad essere stabilimenti di cura, aziendalmente organizzati per dispensare cure frettolose “a tempo”.

Vorremmo luoghi nei quali “a braccia aperte” ci si rivolga agli ammalati per accoglierli, ascoltarli, abbracciarli, assisterli, dando loro il massimo che abbiamo e il tempo che dobbiamo: E’ proprio in questi momenti e in queste circostanze che si opera la scelta dei gesti da fare o non fare, che si decidono i trattamenti da iniziare, da mantenere, da interrompere o da evitare e si svolgono tutte le azioni pur difficili e complesse, scientificamente validate.

Tali scelte, che rappresentano un capitolo importante del fare medicina oggi, vanno difese come patrimonio di scienza, di arti sanitarie e di etica medica.

Ogni sproporzionalità ed ogni ostinazione terapeutica sono da bandirsi e da rimuoversi! Occorre portare avanti con competenza e determinazione solamente cure proporzionali, ridefinendo modelli assistenziali di azioni proporzionate. Occorre costruire specifiche reti assistenziali nelle quali cure palliative e terapie del dolore non dovrebbero mai mancare in tutti gli ambiti e soprattutto in riferimento a patologie ad andamento cronico ed evolutivo.

L’assistenza, per essere qualificata in questo campo deve prevedere una vera e propria “controrivoluzione” necessaria per far ritrovare alla medicina la strada che riporti il paziente al centro e guidi verso azioni di scienza, di rispetto, di complementarietà, di conoscenza, di peculiare attenzione psicologica, sociale e spirituale.

Abbiamo molto da imparare se ci caliamo accanto al malato per cogliere l’essenza delle sue emozioni e quelle della sua famiglia, anche sotto il profilo psicodinamico.

Occorre migliorare i rapporti ospedale-territorio-famiglia-domicilio, ponendo specifica attenzione alle modalità assistenziali tra parallelismi e complementarietà.

Nei luoghi di assistenza abbiamo bisogno gli uni degli altri: espletando al meglio la care, terremo unita la dimensione curativa sia quella palliativa, senza escludere nessuno dai benefici che ne derivano.

E’ necessario resistere alla seduzione di collocare le cure palliative nel vuoto assoluto, in un vuoto che si è voluto creare laddove la cultura moderna, radicalmente immanentista ha disimparato a guardare oltre il limite della vita terrena.

La medicina, per quei malati che non vanno verso la guarigione ma verso la conclusione della vita, deve trovare sostegno nella più ampia disponibilità e sollecitudine, nella speranza di salute e di importanti orientamenti di “bene-essere”.

Le cure palliative e la sedazione del dolore rappresentano una medicina essenziale per l’uomo, che attraverso questi aiuti rimane vivente sino alla morte.

La società non deve più intravedere nelle cure palliative un assunto che parte dalla morte e nemmeno considerarli presidi che aiutano a morire.

Noi chiediamo che prima di sostenere leggi eutanasiche si proceda con urgenza ad approvare leggi per il sostegno efficace dei caregiver. Ancora, sollecitiamo massimo impegno per reperire risorse necessarie per una riorganizzazione di una medicina e sanità di prossimità, per sviluppare al meglio obiettivi primari di assistenza domiciliare h24, anche attraverso la telemedicina.

E’ necessario promuovere l’accompagnamento anche attraverso forme di solidarietà sociale, familiare e amicale, valore quest’ultimo ancora esistente e da riscoprire in termini di sussidiarietà. Auspichiamo dunque che si approvi una legge che non escluda ma garantisca ogni possibile erogazione di assegni di cura da destinare alle famiglie o ad operatori disponibili ad agevolare e rendere possibile la domiciliazione della sofferenza.

La mediazione con i familiari e l’attivazione degli stessi nel percorso di “care” può rappresentare un elemento supplementare che, di rimando, va ad offrire un supporto e va a placare quella vena di inquietudine che non cessa mai di scorrere all’interno delle molteplici situazioni cliniche, sia croniche che complesse che ritroviamo nelle più severe malattie.

Noi vogliamo una medicina che metta sempre al centro e nella massima evidenza il malato, che non deve essere solo qualcuno di cui si parla, ma qualcuno con cui si parla. Questa organizzazione sanitaria non deve più solo contare solo sulla buona volontà di qualche isolato professionista, ma deve essere medicina professionale e specialistica istituzionale che faccia incontrare l’ars curandi con l’ars moriendi.

L’attività sanitaria non è e non deve essere solo un “fàcere”, (cioè basata sull’efficienza e risultato) ma è anche un “àgere”, perché deve agire sotto il principio della bontà, della rettitudine, della competenza, della compassione, interpretando il significato profondo dell’attività umana e contenendo ogni possibile significato di valori.

La frettolosa semplificazione delle procedure di morte attraverso l’accesso all’omicidio del consenziente è paurosa per la società ma fa paura anche ai moltissimi malati cronici che non vorrebbero mai avere accanto un consenziente che, anziché sostenerli nell’ultimo faticoso miglio di vita, li accompagni a “farla finita”.

Noi, operatori sanitari, assolutamente non vorremmo e non dovremmo, mai avere “occhi aziendali” attenti solo all’economia piuttosto che al paziente. Non possiamo obbedire a regole di rigorosa economia ma dovremmo obbedire prioritariamente a regole etiche e morali, meno aziendalistiche o economicistiche, ma portatrici di quei valori e di quei livelli esistenziali e profondi che sono rappresentati dall’universo personale dei valori, e nello specifico di quelle persone che abbiamo in cura e per le quali vogliamo rispettare ogni possibile interiore risorsa.

Lo dico da medico con sempre più convinzione: la società ha bisogno di una medicina per la vita, soprattutto di una medicina che sia capace di ascoltare e capire quelle parole ultime dell’ammalato che, se inespresse, lo rendono prigioniero in una gabbia dalla quale volentieri vorrebbe e uscire se solo qualcuno volenteroso l’aiutasse.

Da medico desidero ribadire che quel malato che per gravi condizioni non va verso la guarigione ma verso la conclusione della vita è più malato degli altri e deve essere attenzionato ancor più degli altri perché è e rimane un vivente sino alla morte.

Noi desideriamo che si elabori una legge per una cura diversa, per una cura competente, una cura che sia inglobata nel più ampio processo di presa in carica del paziente; oggi dovremmo sempre più parlare di quell’essenziale passaggio dalla famiglia all’ingresso in ospedale, e viceversa e pretendere che l’ammalato non sia mai spogliato del suo vissuto e delle sue storie esistenziali. Rivendichiamo una organizzazione sanitaria sostenibile, una medicina che si faccia umile, attenta ai fragili e non li abbandoni mai.

Potenziare l’applicazione su scala nazionale della legge 38/2010 con carattere di obbligatorietà è un atto di civiltà.

E’ atto di civiltà garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore in tutti gli ambiti assistenziali, in ogni fase della vita, anche sul nascere (attraverso gli hospices perinatali); è atto di sensibilità operativa operare al meglio per la “care” di qualsivoglia patologia ad andamento cronico ed evolutivo, sapendo rivolgere lo sguardo a quelle malattie rare, a volte ignorate, per le quali tanto spesso e a gran voce impropriamente pronunciamo: “Non c’è più nulla da fare!” .

Comprendere e capire sino in fondo i rischi gravissimi di una deriva eutanasica, è una grande occasione, per i medici, per gli operatori sanitari e per tutti.

Allora questa nostra contemporanea assemblea rappresenta grande e privilegiata occasione per capire tutti i gravissimi rischi di una deriva eutanasica. E’ occasione che riguarda tutti, ma in modo particolare i malati, che meritano più umanità e compassione.

In riferimento alla proposta di legge Amati, oggi in discussione, e riprendendo quanto sottolineato dal Prof Rodio, Ordinario di Diritto Costituzionale, riaffermo la non competenza della Regione a legiferare su materie di pertinenza statale come il fine vita. Tra l’altro riprendere a livello regionale quanto è già in discussione presso le assemblee nazionali credo proprio sia cosa illegittima! In realtà trovasi in discussione alla Commissione Igiene e Sanità del Senato il Disegno di Legge N. 2553 dal titolo “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, testo già approvato dalla Camera il 10 marzo scorso, che cerca di dare normazione alla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale sul suicidio medicalmente assistito, che come è noto prevede la non punibilità, visto l’art. 580 c.p., dell’agevolazione al suicidio di persona che trovasi in determinate condizioni.

La proposta di legge per la quale sono audito, nelle intenzioni dei proponenti vuole a livello regionale allineare quanto già disposto dalla sentenza 242/2019 della Consulta, e che va attuato a livello nazionale e non già, in modo particolare, nelle sole strutture sanitarie della Regione Puglia.

Nella premessa si parla di nuova prestazione, che verrebbe indicata per legge regionale come ulteriore prestazione di tipo regionale, facendo riferimento ai livelli essenziali di assistenza che sono di competenza nazionale.

Respingo l’affermazione che dare la morte o agevolarla in qualche modo, sia ritenuta tra le prestazioni, come si legge nella proposta di legge, “necessarie previste per i malati terminali e cronici, sia per la sua assimilabilità sotto il profilo meramente finanziario alle cure palliative”.

Entrando nel merito, si nota all’Art. 1 che nella denominazione si fa riferimento ad un’ “Assistenza sanitaria per morte serena e indolore”, ma così esplicitata sembrerebbe richiamare l’affermazione del diritto alla eutanasia, attraverso pratiche eutanasiche o di suicidio assistito che rappresentano delle scorciatoie rispetto a quelle pratiche di sostegno e di accompagnamento dell’ammalato terminale anche attraverso l’implementazione delle cure palliative e della terapia del dolore, previste dall’ottima legge 38 del 2010, che purtroppo dopo 12 anni non è stata ancora completamente attuata.

Ritornando alla proposta di legge Amati, all’art. 1 si afferma che “Le strutture sanitarie pubbliche della Regione Puglia assicurano l’assistenza per aiutare alla morte serena e indolore” senza specificare di che tipo, dove, come, quando e in che modo, ma a parte questo si travalica la verifica delle condizioni e dei presupposti che le strutture sanitarie devono erogare nei confronti dell’ammalato che ha espresso la volontà suicidaria.

Ancora, nell’art. 1 si fa riferimento che tale assistenza è rivolta alle “persone malate in stato terminale o cronico”.

Mi preme sottolineare che con quella “o” alternativa si amplia pericolosamente la platea di riferimento; cioè si intenderebbe che gli addetti alle procedure possono accedere a tale tipo di “assistenza”: quindi non solo i pazienti in fase terminale ma tutti quelli che si trovino in stato di malattia cronica, che sono la generalità dei pazienti e che, viceversa devono essere assistiti dal medico “per la loro vita”.

Ma al di là di ogni approfondimento sulla proposta di legge regionale in esame desideriamo ancora una volta affermare che i medici (tutti i medici) hanno un loro codice deontologico che rappresenta e comprende i principi e le regole che il medico (tutti i medici) deve osservare nell’esercizio della professione, tra cui all’art.17 è scritto: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”.

Noi riteniamo che il favor vitae e il favor curae come valore fondante, è un valore imprescindibile di una società moderna, che vuol dirsi solidale, che vuol dirsi giusta.

Non è giusta una società che non si occupi di tutti e non si fa carico soprattutto dei più fragili ed indifesi, come di chi è in particolare al tramonto della vita.

Per noi è una lacerazione del tessuto civile e dei valori della nostra società, del nostro Stato, nella millenaria tradizione di solidarietà e accoglienza, anche della nostra storia giuridica ed infine della nostra tradizione medica millenaria.

D’altronde nella stessa sentenza 242/2019 della Consulta, viene detto che il divieto di aiuto al suicidio, cioè che l’art. c.p. 580 nell’odierno assetto costituzionale, ha una sua «ragion d’essere» perché “è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”.

E proprio su quest’ultimo aspetto, noi osserviamo che leggi propugnatrici di trattamenti di fine vita anche parvatamente eutanasici minano le basi stesse del diritto, della democrazia e del bene comune.

Le problematiche del fine vita soprattutto quelle riguardanti il rifiuto/rinuncio alle cure, il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia, tutte certamente altamente importanti e complesse perchè interessano la sofferenza, la malattia e la morte, cioè aspetti ineludibili nella vicenda esistenziale di ciascuna persona, sono tra le questioni più controverse e dibattute in campo sanitario e non solo, perchè riguardano decisioni politiche e legislative con conseguenti effetti giuridici e con implicazioni etico-deontologiche.

La richiesta di suicidio assistito o di eutanasia nasce sovente dal rifiuto di continuare a vivere in condizioni di precarietà e grave sofferenza e il medico sa bene che l’agire di cura è incentrato sulla dignità del malato, sul valore della persona sofferente, sui suoi bisogni assistenziali.

L’autodeterminazione della persona, come la sua libertà ed autonomia, è un valore irrefutabile e irriducibile e riflette l’identità individuale, ma si paventa che quando è irrelata ad ogni confronto (con i familiari, gli amici, il medico, ecc.) rischia di diventare autocentrica e autoreferenziale e di acuire una surrettizia e impropria contrapposizione tra la libertà del paziente e l’arte del medico, che invece è sempre a tutela della salute e della vita, soprattutto nel momento della sua massima fragilità, determinata dalla malattia, e nell’imminenza della morte.

Crediamo fermamente che non possa rientrare il suicidio assistito e l’eutanasia tra i doveri professionali e deontologici del medico, tra le sue opzioni “terapeutiche”, possibili e praticabili nell’alleanza medico-paziente e nella relazione di cura e di fiducia, perché innanzitutto egli medico sarebbe in grave conflitto morale con se stesso, dal momento che la grave sofferenza del paziente viene eliminata a scapito del bene vita; né l’attività del medico è da considerarsi una mera prestazione tecnica ma è un intervento complesso di notevole valenza scientifica, umana ed etica, che significa anche riconoscimento della finitudine umana e dei limiti della medicina, che non sempre guarisce ma sempre può curare.

Si ritiene che nel processo del morire l’azione del medico non può che essere quella di un accompagnamento continuo, di un empatia umana, di una prossimità relazionale, di un eccezionale impegno professionale… certamente rinunciando a terapie sproporzionate o straordinarie, inutili, futili, gravose; certamente implementando una adeguata, efficace, completa terapia del dolore e delle cure palliative, ed anche con la sedazione palliativa profonda, ma giammai somministrando un farmaco e portare a morte il paziente e soprattutto mai a determinare atti di abbandono, di allontanamento o di assenza di cura.

Rimaniamo del convincimento di un grave impedimento per il medico ad assecondare la volontà suicidaria o eutanasica del paziente perché il fine e la natura della medicina è indubbiamente curare e ristabilire la salute e alleviare il dolore e la sofferenza e assicurare la più alta qualità della vita quando non si può più guarire, perché si è soprattutto convinti della assoluta incompatibilità tra i fini della professione medica e l’uccidere; chi esercita la difficile arte medica, non può scegliere di far vivere o far morire, non ha, se medico, alternative: l’unica opzione che il medico può esercitare è, sempre e comunque, per la vita e a favore della vita, perché è la sua professione che lo obbliga, oltre che la sua coscienza, alla quale in ultimo deve sempre appellarsi.

Vorrei aggiungere ancora qualche mia riflessione: avrei preferito che i consiglieri della Regione Puglia avessero proposto una legge che esaltasse la vera essenza e il valore degli hospice, una legge che avesse evidenziato la necessità degli stessi e la capacità di essi di cogliere pienamente il valore della cura delle persone, nelle fasi critiche della vita, una struttura che non solo si adoperasse per fornire cure mediche alla luce delle più alte competenze scientifiche, ma che fosse totalmente in gioco (si fa per dire) per garantire quelle necessità assistenziali di tipo relazionale, spirituale e solidale, che possono aiutare la famiglia a scoprire il senso della propria sofferenza e fragilità perché questi sono gli elementi che definiscono la straordinarietà di una civiltà e la straordinarietà di strutture, quali gli hospice con la prospettiva di fornire una unità assistenziale che non è soltanto medica, ma che si fa casa, una casa piena di amore e verità dove la verità sia una sola: Questi “assistiti” sono persone amate.

Quello che dovremmo costruire, quello che dovremmo desiderare e perseguire è un percorso clinico e unico che sia in grado di unire aspetti clinici, etici, familiari, spirituali e solidali, in una continuità assistenziale che enfatizza il lavoro dei singoli operatori sanitari e delle specifiche unità operative coinvolte e che, al di sopra di una mera assistenza produca sinergie unitive di competenze altamente specialistiche, in risposta concreta alla profonda e grave sofferenza che viene presa in carico per percorsi di aiuto estesi al nucleo familiare per una presa in carico globale.

La presa in carico globale dell’evento patologico e la consulenza specialistica onora la dignità della vita di tutti.

I gruppi per le cure di medicina palliativa nel sistema sanitario nazionale garantiscono non solo i casi di patologie terminali ma tutti i casi di gravi patologie attraverso i gruppi hospice, multidisciplinali e interdisciplinali, e con organizzazione orizzontale non verticistica, i soli che possono garantire una medicina condivisa tra medici, consulenti, famiglia e gruppi professionali che si spingono verso una crescita professionale costante e costantemente migliorativa.

Certamente è più facile risolvere il problema della sofferenza eliminando il sofferente, ma non è così! Questa è la via più semplice però meno educativa per tutti.

La scelta del promuovere la morte è una scelta disumana, sempre più spesso oggi sostenuta da argomentazioni di pietà del tipo che “i sofferenti starebbero meglio se morissero”.

Noi medici non siamo per l’abbandono, né per l’accanimento terapeutico. Siamo per percorsi clinico-assistenziali di eccellenza medico-scientifica, mai disgiunti da prospettive di speranza e umanità per i sofferenti e per le loro famiglie.

Vorremmo essere segno di contraddizione in un mondo che spinge inesorabilmente verso lo scarto dei più deboli.

Noi medici e operatori sanitari, che lavoriamo su quella linea di confine, rappresentata dalla sofferenza, dalla malattia e dalla terminalità, vorremmo essere messi in grado, anche dalla politica, di essere operatori che contaminano la scienza con l’umanità, con la compassione e la tenerezza, valori che abbracciano totalmente il mistero della vita e della sofferenza per essere in grado di fornire le miglior cure possibili.

Auspicheremmo che la Regione Puglia diventi leader nella nostra realtà nazionale e nel nostro sistema sanitario nazionale per le cure palliative, affrontate e definite con la legge 38 del 2010 (Disposizione per garantire l’accesso alle cure palliative e terapie del dolore – Gazzetta Ufficiale n. 65 del 19.3.2010) affinchè i cittadini, come ben detto dal Ministero della Salute, non siano più soli nel dolore e nelle cure palliative riscoprano un riparo sicuro di calore umano e scienza medica.

Sottolineiamo che quel sistema di reti per garantire a tutti i cittadini, se ne avessero bisogno, l’accesso alle cure palliative (nel rispetto del decreto ministeriale 1999 “reti di cure palliative” come aggregazioni funzionali e integrate di servizi distrettuali e ospedalieri, sanitari e sociali, capaci di operare in modo sinergico con la rete di solidarietà sociale del contesto territoriale e nel rispetto delle autonomie clinico-assistenziale e dell’autodeterminazione del paziente ancora non esiste.

Le disomogeneità e disparità di effettivo funzionamento di tali reti tra regione e regione è macroscopica e l’offerta è abbondantemente al di sotto della richiesta e della necessità.

La Puglia è al quintultimo posto in Italia e questa non è cosa tollerabile!

In conclusione, la vera urgenza del nostro Paese – alla luce dei dati che ho sinteticamente esposto – non è certo quella di normare la “morte volontaria medicalmente assistita”, quanto piuttosto di dare risposte concrete in termini di cure palliative alle persone sofferenti, aiutandole e accompagnandole, in modo sereno e dignitoso, al momento finale della vita. La risposta – assolutamente dovuta e necessaria – alla sofferenza e alla disperazione esistenziale non può e non deve essere la morte del sofferente, quanto piuttosto il sapiente e competente accompagnamento alla morte naturale, attraverso un percorso scientifico di allevio del dolore fisico, psicologico, sociale e spirituale che garantiscono la dignità della persona.

Le Cure Palliative non vogliono né ritardare né anticipare la morte naturale della persona: la loro convivenza con pratiche eutanasiche non è nemmeno ipotizzabile (European Association for Palliative Care. Definition and Aims. www.eapcnet.eu – marzo 2017). La forza propositiva insita nella Medicina Palliativa e la fiducia nella capacità di accoglienza integrale e profonda del morente, senza uscire dalla “relazione di cura”, vengono compromesse da un cedimento qualsiasi di fronte ai tentativi di “integrazione” fra eutanasia e cure palliative.