di Giuseppe Battimelli
06 GIU – Gentile Direttore,
il prof. Ivan Cavicchi nell’articolo del 27 maggio scorso acutamente, con una riflessione densa e significativa, ha individuato nel contributo della bioetica una delle possibilità per affrontare la crisi della medicina da una parte e conseguentemente dell’assistenza sanitaria dall’altra.
Mi inserisco nelle dibattito da lui sollecitato innanzitutto da medico e cultore della bioetica, perché nell’affrontare le questioni di cui sopra la prospettiva certamente può essere differente rispetto al filosofo, al politico, all’economista sanitario, ecc. e poi come membro di una società scientifica la SIBCE (Società Italiana per la Bioetica e i Comitati Etici) che si richiama al personalismo ontologicamente fondato.
Innanzitutto è vero che la bioetica come disciplina sovente appare autoreferenziale e talvolta “mera teoria” e ciò nuoce ad un itinerario di crescita, e comunque anche a fronte di supposti limiti sono riconosciuti l’importanza e l’utilità degli strumenti e delle categorie di analisi davvero peculiari di essa per fornire valide proposte.
La bioetica sulla questione medica e sulla crisi della medicina abbia detto poco, anche nella contingenza pandemica? Credo proprio di no.
Ma per rimanere alla “crisi della medicina e l’assenza della bioetica” sollevata dal prof. Cavicchi, possiamo dire in sintesi quanto segue.
I mutamenti dell’assistenza sanitaria e delle politiche del welfare che abbiamo davanti, peraltro accentuatisi dalla situazione di emergenza pandemica dovuta al coronavirus SARS-CoV-2, impongono molte e problematiche domande che riguardano la politica, l’organizzazione sanitaria, il diritto, la legislazione, l’etica medica e la deontologia, la bioetica.
In particolare, soprattutto nei paesi del mondo occidentale più evoluti e con sistemi sanitari moderni e all’avanguardia, vengono poste certamente questioni di estrema importanza inerenti il fondamentale diritto alla salute e come questo possa essere assicurato e garantito sempre e in ogni caso, soprattutto nei momenti di grave emergenza sanitaria, quando il sistema assistenziale, riguardanti le risorse umane e strumentali, e le misure di protezione della popolazione manifestano gravi difficoltà.
Certo è che “il diritto alla salute” che l’autorità statale deve assicurare è nella significazione della “tutela della salute” così come previsto dall’art. 32 della Costituzione, da cui discendono gli obblighi dello Stato alle prestazioni sanitarie, oltre che della libertà di cura, nell’interesse collettivo e individuale; anche se è da chiedersi come, quando e in che modo, questo diritto preveda un’accessibilità di fatto e non di diritto, giacchè da assoluto può essere relativo, parziale e perfino inattuabile o quantomeno può diventare problematico a causa di esigenze di bilancio (e difatti si parla di un diritto “finanziariamente condizionato“) o da difficoltà organizzative oppure dall’emergenza sanitaria, come si è verificato nel corso della pandemia da Covid-19.
In ogni caso nei sistemi sanitari ad impronta solidaristica ed universalistica come quello italiano sono sempre imprescindibili: a) il principio di eguaglianza tra le persone e l’equità di accesso alle cure, rifuggendo da qualsiasi forma di discriminazione; b) il principio non negoziabile del valore e della dignità di ogni essere umano.
Come s’è visto in epoca pandemica, l’etica della salute pubblica, attraverso l’applicazione di strumenti scientifici che sono di riferimento per i decisori politici ed è volta a tutelare il bene salute della collettività, non può però essere disgiunta da un’etica nella salute pubblica a livello individuale dove, anche nell’attuazione di misure nell’urgenza, devono essere salvaguardate le libertà personali e l’autonomia individuale del paziente.
Se è vero che il principio imprescindibile di un sistema sanitario è quello della giustizia distributiva, al cui fondamento vi è un’equa distribuzione delle risorse comuni e un’eguaglianza di accesso ai servizi e alle prestazioni, l’equità esige di tutelare gli elementi più deboli di una società sia per gli aspetti etici che operativi, riguardo a persone, gruppi e categorie particolarmente vulnerabili, caratterizzate da estrema fragilità.
Ciò ci introduce come giustamente riflette il prof. Cavicchi, al principio di vulnerabilità, che possiamo dire è il nuovo principio della bioetica e del biodiritto, centrale e fondamentale per la tutela, il rispetto e la promozione della vita umana (e non umana) e anche dell’ambiente, a cui devono ispirarsi gli Stati, la società civile, le organizzazioni di volontariato, le agenzie culturali, ecc. nella varie forme di concreta realizzazione.
Tale principio, concepito sulla fragilità e la finitudine dell’esistenza dell’uomo, richiama l’obbligatorietà deontologica, giuridica e morale del “prendersi cura di”, soprattutto da parte del medico nella sua attività professionale, quale espressione della posizione di garanzia. È certamente un’idea innovativa, che ha stretto collegamento con i principi di solidarietà e di giustizia e per quanto riguarda l’arte medica, con “l’etica della cura”.
Di contro è da dire che misure sanitarie, alla luce di teorie conseguenzialiste, possano determinare l’evenienza, davvero concreta, di prassi utilitariste anche come criterio dell’azione morale, soprattutto nella scarsità di risorse (privilegiare chi ha maggiori possibilità di guarigione o chi è in maggior pericolo di morte? Considerare il numero di anni di aspettativa di vita del paziente o valutare la qualità delle particolari condizioni di vita attuali e/o future, determinate da una certa patologia?).
È sempre vivo il dibattito se alla medicina debba riconoscersi una concezione “ontologica” oppure è questo un momento di passaggio verso una concezione “storica”. Se certamente è vero che la medicina è influenzata anche dalla cultura dominante e da alcuni obiettivi che la società esprime in quella particolare fase storica, riteniamo che in ogni caso essa non può prescindere e disconoscere la sua natura intrinseca.
Cioè a dire con Edmund Pellegrino che gli scopi della medicina sono soggetti a una certa variabilità, mentre le finalità specificano la natura e sono indipendenti dalle esigenze espresse dalla società; e concordiamo con Daniel Callahan che già in passato riteneva che preliminare ad ogni esame della crisi della medicina è necessario esplorare in che direzione deve andare nel futuro, quali sono le priorità e quali i cambiamenti necessari, e ciò deve precedere necessariamente e non seguire una valutazione essenzialmente di tipo tecnico, gestionale e organizzativa (il ruolo del mercato e dello Stato, il controllo dei costi, le analisi costi benefici, ecc.)
Riteniamo infine che i principi fondamentali della bioetica personalista, giammai desueta, quali il principio della difesa della vita e della salute, il principio della responsabilità, di socialità verso il bene comune e il principio di sussidiarietà, possono certamente offrire un orientamento sia teorico che procedurale di fronte a decisioni gravose ma ineludibili e contemperare in modo bilanciato le esigenze individuali e quelle della comunità.
Ecco quindi che le riflessioni del prof. Cavicchi rappresentano un’importante sollecitazione rivolta a tutti e non solo ai bioeticisti su fondamentali questioni sulla crisi della medicina e sul suo futuro che certamente vanno colte e approfondite.
Giuseppe Battimelli
Vice presidente nazionale Società Italiana per la Bioetica e i Comitati Etici (SIBCE)