Indi Gregory, una vicenda che ci interroga sul valore della vita

La Corte di Londra ha disposto l’interruzione ai trattamenti vitali di Indi Gregory, la neonata britannica affetta da una grave malattia mitocondriale. Ma chi stabilisce se una vita è degna di esser vissuta?

Lascia certamente sgomenti la vicenda di Indi Gregory, ricoverata all’ospedale Queen Medical Center di Nottingham, che ha portato di nuovo all’attenzione dei media londinesi la problematica sulla liceità dello staccare la spina e porre così fine ad una vita umana.  Alle 15 italiane infatti, il giudice inglese Robert Peel potrebbe di nuovo decidere di terminare l’esistenza della piccola “per il suo miglior interesse”. La piccola Indi Gregory infatti, è affetta da una grave malattia mitocondriale che compromette seriamente la sua aspettativa e qualità della vita.

La malattia

Le malattie mitocondriali sono un gruppo molto eterogeneo di patologie ereditarie causate da alterazioni nel funzionamento dei mitocondri, presentano notevole variabilità clinica relativamente all’età d’insorgenza, al tipo di evoluzione e ai tessuti coinvolti. I distretti più frequentemente interessati sono l’apparato muscolare e il sistema nervoso centrale e periferico, ma possono essere coinvolti in vario grado anche altri sistemi. La sintomatologia comune, quando la respirazione mitocondriale è insufficiente, è l’intolleranza agli sforzi, il facile affaticamento e l’accumulo di acido lattico nei tessuti muscolari.

Il valore della vita: il caso Indi Gregory

Una vicenda dagli aspetti controversi che non può non portare chiunque, dotato di buon senso, a porsi delle domande sul valore della vita e se, quando e perché possa o debba essere interrotta. Indi all’età di soli otto mesi dovrà partire per il suo viaggio di non ritorno. Una storia triste, nella quale si sono frammiste problematiche etiche, giuridiche, mediche, parentali ma nella quale, soprattutto, non viene mantenuta in debita considerazione la sacralità della vita umana.

Dopo Therry Schiavo, Eluana Englaro, Charlie Gard, Alfie Evans, Vincent Lambert, Archie Battersbee, di nuovo il Regno Unito ripropone il tema eutanasico: i sostegni rianimatori che tengono in vita Indi Gregory dovranno essere staccati.

Il lato “giuridico”

Dopo una lunga serie di ricorsi giudiziari presentati da mamma Claire e papà Dean contro le sentenze emesse nei vari gradi di giudizio dalle corti del Regno Unito, nel nome del supposto “miglior interesse” della bambina, la Corte Europea di Strasburgo dei Diritti dell’Uomo, interpellata dai genitori, si è dichiarata ancora una volta incompetente a “interferire”, come in passato relativamente ai casi analoghi dei piccolissimi Charlie Gard e Alfie Evans. Dopo aver lottato per settimane contro i medici e gli avvocati nei tribunali, la famiglia Gregory sembra di fatto aver esaurito ogni possibile strada per salvare Indi dalla morte.

Neppure la concessione della cittadinanza italiana, varata a favore di Indi nel corso di una seduta d’urgenza del Consiglio dei Ministri, che avrebbe dovuto spostare il caso sul piano diplomatico, sembra aver sortito effetto sul trasferimento della piccola paziente all’ospedale pediatrico del Bambin Gesù, eccellenza in campo medico europeo, che si è reso disponibile alla presa in carico della piccola paziente. È su questa base che il console italiano a Manchester, nella sua funzione di giudice tutelare, ha emesso un provvedimento di urgenza dichiarando la competenza del giudice italiano e autorizzando il trasferimento di Indi Gregory presso il nosocomio romano.

A tale proposito il papà Dean ha dichiarato: “L’Italia ci dà forza e coraggio per combattere l’ingiustizia di cui è vittima la mia bella bambina Indi. Siamo sopraffatti dal sostegno che ci viene dall’Italia e aver fatto di Indi una cittadina italiana mi commuove fino alle lacrime”.

Un concetto agghiacciante

Pur non entrando nel merito clinico della sentenza, nel metodo, il concetto della morte data nel nome “del miglior interesse” fa rabbrividire, rievocando l’immagine, nei vecchi film Western, del cavallo ferito e abbattuto per pietà al fine di non prolungarne la sofferenza

Di fatto ci si trova di fronte ad un condannato a morte, non nel senso teorico della parola, ma nel vero senso concettuale del termine; di un condannato per il quale il braccio della morte è stato sostituito da una stanza del Queen Medical Center di Nottingham e dove non è stata nemmeno presa in considerazione l’ipotesi di trasferire la piccola Indi nella migliore struttura sanitaria europea pronta a garantirle un sostegno vitale a lungo termine.

Si è giunti, secondo un principio condiviso dai più, a proporre il concetto di autodeterminazione quale elemento imprescindibile secondo cui si può, assecondando il proprio desiderio, interrompere la propria vita o quella di chi si è tutore secondo la legge.

Una sentenza di morte

Nel caso in questione, così come in alcuni precedenti, si è andati paradossalmente oltre in quanto neanche i genitori, che hanno la patria potestà sul minore, si sono potuti opporre, al momento, a questa che è una vera e propria sentenza di morte e ciò perché i medici inglesi hanno affermato che non ci sono evidenze scientifiche per sperare in un miglioramento della piccola.

Allora viene naturalmente da porsi alcune domande: perché non viene rispettato, anche in questo caso, in nome di quella parola magica che è l’autodeterminazione il diritto dei genitori di decidere della vita del proprio figlio quando questo diritto viene assicurato, al contrario, allorché si chieda di porre fine alla vita? Perché viene negata la possibilità di trasferire la piccola paziente, peraltro anche cittadina italiana, in una struttura sanitaria, accreditata tra le migliori, richiesta esplicitamente dai genitori?

Un concetto ambiguo

Il grande vulnus antropologico, filosofico, bioetico e purtroppo ideologico è rappresentato dall’ambiguo concetto che si ha a proposito dell’autodeterminazione secondo cui se da un lato, di fronte ad una richiesta di morte, ha valore la volontà del paziente o del tutore, dall’altro, al contrario, di fronte ad una richiesta di voler continuare a vivere si sostituisce lo Stato con una sentenza di morte.

Si comprende bene come il supplire da parte dello Stato alla volontà genitoriale rappresenti una china molto pericolosa considerando le centinaia di migliaia di casi di disabili gravi, di stati di minima coscienza e di anziani non autosufficienti presenti nelle varie realtà che con questa visione ideologica e con tali motivazioni giudiziarie rischiano di essere viste come “vite non degne” di essere vissute e, quindi, da sopprimere.

chi stabilisce se una vita è degna di esser vissuta? Lo Stato? O una commissione medica il più delle volte ideologizzata? L’allocazione delle risorse? O piuttosto la persona e in sua vece i suoi cari? Dare la morte per legge, per pietà o ancor peggio per amore, equipara l’essere umano ad un qualsiasi altro essere vivente del regno animale, ma la persona umana non è soltanto corporeità ma ha la dignità di persona.

Le scorie di una società liquida

È lecito che la sentenza di un Tribunale possa sostituirsi al desiderio di un padre e di una madre che, nelle piene facoltà mentali e secondo coscienza, vogliono assumersi la responsabilità e l’onere di accudire il proprio figlio fino ad accompagnarlo nel suo trapasso naturale, tanto da arrivare fino ad impedir loro di portarlo amorevolmente a morire nella propria casa?

La risposta a tutte queste domande trova purtroppo riscontro in una società liquida quale quella attuale dove tutto scivola addosso, così come le migliaia di morti in conflitti insensati, giustificati soltanto da sete di potere o in quotidiane morti assurde spesso filmate nelle vie delle città nella totale indifferenza dei “tanti spettatori”.

Scusaci Indi…

Ora cara Indi, non potendo far altro, vorremmo chiederti scusa: per l’incapacità che abbiamo avuto nel non saperti difendere e per chi si è girato dall’altra parte, scusa per quei medici che hanno dimenticato chi era Ippocrate e che si sono arresi senza il coraggio nel testimoniare i valori della nostra professione che deve sempre e comunque guardare al bene della persona e del suo corpo, sempre scevra da alcun condizionamento; scusa infine se, in nome di una falsa pietà, ti priveranno della vita per non creare precedenti o per meri calcoli economici.