AMCI – Convegno su: “Il Rapporto medico-paziente”

ASSOCIAZIONE MEDICI CATTOLICI ITALIANI (AMCI)
Sezione di Nola

Convegno su: “Il Rapporto medico-paziente” 

Relatore: Dott. Antonio Falcone

Basiliche Paleocristiane di Cimitile (Na) – 16-VI-2001

 

Medico-paziente: un modo di rapportarsi

Ringrazio L’AMCI di Nola attraverso il suo Presidente, il  Dr Felice Avella,  per l’invito rivoltomi.

Li ringrazio tutti, uno per uno, per avermi dato la possibilità e l’opportunità di guardarmi dentro. Con somma umiltà mi accingo a proporvi la mia esperienza.

Parto da un ricordo della prof. Sampaolo di Istologia ed Embriologia umana al Primo anno di medicina. Durante le prime lezioni a noi così si rivolgeva: VOI GIA’ SIETE MEDICI!!!

Ci facevamo piccoli piccoli, “matricole”  ai primi passi nell’ispezione di un mondo completamente nuovo e misterioso.

A distanza di tempo incominciai a comprendere ed a capire che in fondo aveva ragione: bisogna sentirsi medici già nel cuore e nella mente prima di iniziare il cammino nuovo che speravamo ci avesse poi portati alla meta.

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La mia fanciullezza è stata caratterizzata da due figure paradigmatiche che porto sempre dentro in modo vivo: un prete,  mio zio Gennaro, un medico, il dr. Antonio Esposito .  Entrambi non poco hanno influito sul mio essere d’oggi.

Il prete ed il medico: due professioni così diverse eppure così complementari, così  apparentemente lontane eppure in sostanza spesso così fuse l’una nell’altra ( basti pensare all’azione congiunta ed integrante dell’uno e dell’altro al capezzale di un malato ed in particolare spesso di un malato terminale…)

Zio Gennaro ha rappresentato per me tutto, ma in questo caso mi riferisco ad un aspetto particolare della sua poliedrica personalità; in questo caso voglio guardarlo sotto la sua eminente figura di Pastore e di Pastore d’anime. Il contatto con tutti i bambini, i giovani per i quali ha speso buona parte della sua vita, gli adulti, gli uomini di cultura e gli  analfabeti, gli uomini con un’anima e gli uomini senz’anima, mezze calzette ed uomini veri. In molte occasioni concrete di vita ho potuto osservare  il suo stile di vita e la sua profonda formazione umanistica, il suo fare gaio e quello austero, il suo fare affabile ed il suo prendere le distanze, il suo giocare con i giovani ed il rimprovero benevolo e paterno all’occorrenza. In ogni occasione era però sempre se stesso, il Sacerdote, con i suoi tratti precisi ed inconfondibili che giammai davano adito a fraintesi o ad interpretazioni errate sul suo conto.

L’altra figura è il medico nella persona del dr. Antonio Esposito. Un altro paradigma per la mia vita. Egli era quella speciale persona, il Dottore, che entrava nelle case di tutti, in ogni casa, con il suo fare signorile e distinto; si sedeva al letto dell’ammalato, gli parlava, discuteva, rasserenava, intuiva cose non viste e non udite, visitava, ipotizzava, faceva proposta di diagnosi, discuteva con altri colleghi durante il consulto in particolari casi.

Ricordo che tra i miei giocattoli di bambino vi erano gli arnesi del mestiere, gli strumenti di medico che egli stesso ad una mia richiesta mi regalò prendendoli tra quelli in disuso. E così con qualche amico che ricordo nella più viva memoria si giocava al “dottore e paziente”.

Intanto crescevo negli anni con nel cuore queste due persone che facevano capolino nella mia vita e soprattutto che avrebbero determinato una svolta sostanziale  nella mia vita.

L’adolescenza fu il tempo privilegiato per riflettere sulle scelte di vita, i gruppi di Azione Cattolica i luoghi privilegiatissimi per interrogarsi su un progetto di vita. Cosa voglio fare della mia vita?

Intanto ero attratto da questi due personaggi che fondevo completamente ed armoniosamente in me e che non sapevo scindere l’uno dall’altro. Procedevo.

Gli anni dell’Università mi hanno visto impegnato profondamente in questo ricerca di orientamento e di senso e ciò che chiedevo allo Spirito Santo era di essere un buon medico ed un medico buono. E “nessuno meglio di me sapeva quanto il tempo della preparazione, oscuro ed inglorioso, sia garanzia indispensabile di ogni successo” (Prof.  Mauro Bartolo).

Le preghiere di coloro che mi vogliono bene mi hanno accompagnato, soprattutto quelle di mia madre, alla quale devo la vita, lo sprone per non arrendermi, l’insistenza, la graduale affermazione nella mia professione.

Gli  anni universitari mi vedono ancora impegnato su due versanti:

  • lo studio attento, meticoloso, associato alla frequenza della semeiotica medica prima e della clinica medica del prof. Coltorti  e dell’Angiologia del prof. Del Guercio poi;
  • la frequenza e l’attività in Azione Cattolica ed in parrocchia, nel sociale, nella politica.

Sono sempre stato convinto, guardando i miei maestri, che bisogna sempre guardare il quadro d’insieme, guardare alla formazione globale, per cogliere il senso, il “kerigma”, il nocciolo del messaggio della vita.

E’ stato ed è duro e faticoso, ma affascinante ed avvincente. Una sfida per misurarsi, per migliorare, per crescere, per essere adulti.

Poi la laurea. Nella semplicità fu una grande festa. Era un traguardo importante. Ero convinto di essere arrivato alla meta con un bagaglio pieno. Ero pronto per affrontare i problemi, soprattutto in un momento particolare: bloccato lo sbocco universitario, bloccata la mutua, la medicina generale, la guardia medica, i concorsi ospedalieri, nella nostra terra. Bisognava uscire, andare fuori, ma il radicamento e l’amore-odio catulliano per la mia terra non me lo permettevano. Mi sentivo chiamato a vivere qui ed ora, dove il Signore mi aveva posto. In quella fase mi restava la scelta obbligata della libera professione e continuare i miei studi. La scuola di perfezionamento in malattie vascolari, la specializzazione in cardiologia, la frequenza ospedaliera.

Intanto il mio ambulatorio medico cominciava a muovere i primi passi. Gli amici per la laurea mi avevano regalato diversi oggetti utili: il lettino-visita, il fonendoscopio cardiologico, l’otoscopio  e l’oftalmoscopio, lo sfigmomanometro a mercurio,  i fogli intestati, la lampada da scrivania, il dopplerino portatile, il doppler cw gradito regalo da parte della mia famiglia….

Le mie visite, intanto, cominciavano a crescere in numero di mese in mese, di anno in anno. Mi piaceva fare il medico in quel modo.

Per sette anni sono stato impegnato anche nella medicina di base, la medicina generale, che ho svolto sempre con tanto amore e con tanta dedizione, guardando al “mio” dottore Esposito, col quale nei primi  anni della mia attività professionale spesse volte mi confrontavo, prima che un cancro lo portasse via fisicamente da noi tutti.

Cercavo  e cerco di essere attento a tutto ciò che mi stava intorno, per accogliere bene i miei pazienti.

L’appuntamento è un modo per rispettare la persona, anche se talvolta saltano gli orari per una urgenza, un intoppo…

In questo c’è una sinergia d’azione con mia moglie che funge anche da segretaria eccellente.

La sala d’attesa sempre ben tenuta da mia madre che profonde tutte le sue energie per tenerla in ordine col suo tocco femminile: posters, giornali scelti periodicamente aggiornati, depliants medici, una immagine di maternità, un tavolinetto con un bel vaso di fiori, sedie ben messe, rendono un ambiente accogliente di per sé.

L’accoglienza delle persone, un saluto gioviale, una stretta di mano allentano la fisiologica tensione interiore che domina il paziente nell’attesa        del responso finale, della diagnosi, della terapia, della risoluzione del problema.

Prima di tutto la persona che spesso viene misconosciuta, resa oggetto, accantonata. E così capita molto spesso che in questi nostri ambienti si coltiva“l’amore per una medicina non cara ai malati, ma ai  congressi”( Martorell), non cara alle persone, ma ad una tecnica imparata, come se fossimo robot nei quali bisogna sostituire pezzi difettati oppure spezzare meccanismi e fili in più.

Il “sapere” è fondamentale. Il “saper fare” è indispensabile, ma il “saper essere” è il crogiuolo di coagulo tra sapere e saper fare. Spesso è ciò che manca a molti.

Ad un laureato in medicina che si interessava di ablazione transcatetere, tecnica che aveva imparato e che lo rendeva onnipotente ai suoi occhi, un collega pose alcuni giorni fa una domanda durante un simposio: “Che esperienza hai circa la memoria anterograda dopo anestesia e scarica di 34 Joule ( già di per sé alta! Ndr) di un paziente con fibrillazione atriale permanente che si sottopone ad una ablazione?” E , con una risata sonora, di rimando: “Ah,ah,ah. Non mi pongo il problema”; come per dire: “Cosa mi vieni a chiedere, che me ne importa?!” Ecco attuata una sorta di oggettivizzazione dell’altro con puro scopo di curiosità scientifica, di interesse professionalistico che  rende il nostro paziente oggetto che offre all’operatore la possibilità di  modificarlo ed utilizzarlo secondo i suoi gusti e le sue intenzioni.  Forse, se ci fosse sua madre sotto le sue grinfie praticherebbe l’ablazione allo stesso modo?!

Questo ci induce a rivederci dentro in ogni istante della nostra vita ed a riconoscere il volto della propria madre e, per noi, il Volto del Cristo sofferente  in ogni paziente che viene alla nostra osservazione e che ci viene a chiedere aiuto.

L’Ascolto presuppone un atteggiamento interiore di apertura, lontani da quella “medicina sine medicina” che la pur importante automazione vorrebbe propinarci. Il rompere il ghiaccio, il chiedere la provenienza, i luoghi di vita, le attività professionali ed i mestieri, aprono il cuore e la mente del paziente che ci offre tante notizie utili per l’anamnesi personale, familiare, remota e prossima. Lo scambio di visioni, di piccole esperienze, di flash tra un medico ed il suo paziente creano anche quel feeling, quella empatia che ci fa entrare in sintonia, che crea un rapporto interpersonale che ci fa comprendere (prendere con) e compatire (soffrire con) e che ci prepara  alla visita medica vera e propria, contro la logica hegeliana del rapporto padrone-servo e di quella sartreiana dell’incontro attraverso lo sguardo oggettivante, cioè della oggettivizzazione dell’altro.

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“Un medico non è come gli altri. Un medico è tra vita e morte, ogni istante. La morte degli altri è anche la prova della propria morte, non è la morte degli altri e basta. E quand’anche tu la considerassi solo la morte degli altri, quella ti entra dentro, lo scintillio dei denti nell’ultimo ghigno, la ruga sul limitare del labbro screpolato, la pupilla all’infinito prima che tutto finisca, talora il lampo di chi non t’ha mai visto, sconosciuto medico di guardia, e pensa che tu, le tue medicine, dobbiate salvarlo ad ogni costo.

Un medico è diverso dagli altri. Porta a casa tutte queste morti, lui le ha addosso anche quando accarezza i capelli sottili del figlio, quando pota le rose in giardino, quando brinda all’anno nuovo. Misterioso, eccitante, deprimente mestiere di verità. Nessun’altra cosa oggi, farei, se non questa” (Prof. Mauro Bartolo)

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Quello che colgo soprattutto è che la maggior parte dei pazienti vuole essere ascoltata, ha bisogno di un interlocutore, ha bisogno di parlare, di sfogarsi, di comunicare. In quel momento si incontrano due esseri: un ENS INDIGENS ed un ENS OFFERENS. Attraverso ciò si riesce meglio a capire, a discernere i mali psichici e psicologici  e quelli fisici, le somatizzazioni, a volte le frustrazioni, le paure, elementi che messi nell’insieme fanno “entrare dentro”, fanno scrutare  in profondità il  Paziente, che permettono di entrare nei meandri più oscuri, nelle pieghe del cuore e che aiutano a fare diagnosi ed  a dare più giusti consigli terapeutici.

Queste osservazioni ci fanno cogliere un elemento fondamentale: non esiste solo una medicina organicistica, ma una medicina funzionale che di per sé boccia il concetto del “malato immaginario” di moleriana memoria e che ci fa comprendere che la mente è ineffabile nella descrizione ed impalpabile, ma fa sentire i suoi effetti  più o meno sul corpo.

Emblematico l’esempio di quella signora che rivoltasi al medico per un mal di testa le passa con un semplice poto di acqua e zucchero…dopo previo accordo col farmacista.

La signora S.R.  mi chiama: si sente male. Una presenza, uno sguardo, un sorriso, una parola. Già sta meglio.

La signora ha la pressione arteriosa alta: vado. Una misuratina di pressione, tutto bene, anche dopo le scariche di adrenalina di un buon caffè.

Il potere del   medico sul paziente è misterioso, perché è proprio lo status medico che gli da potere, perché inquantificabile, imponderabile, indescrivibile nella sua portata, indispensabile, perché in positivo raddrizza sentieri, apre finestre, fa entrare luce e calore nel cuore degli uomini malati. E’ importante gestire bene questo potere che dà alla persona del medico AUTORITA’ ed AUTOREVOLEZZA, anche dalle quali spesso nasce la FIDUCIA. Ed il paziente spesso si ripone tra le braccia del medico, spesso  come un bimbo tra quelle della mamma per farsi guarire talvolta, curare spesso, consolare sempre.

Da ciò nasce l’Amicizia Pedagogica: il medico non è semplicemente l’amico che ascolta, ma l’educatore che con stile delicato tende a modificare le carenze del discepolo, soprattutto quando egli stesso vuole vedere nel medico un mero distributore di servizi, come avviene in un supermarket o in un qualsiasi ufficio, o vorrebbe tendere ad un sovvertimento dei rispettivi ruoli.

Una figura benevola e sorridente, quella di San Giuseppe Moscati che ho sulla mia scrivania, volge lo sguardo fisso su di me e mi aiuta nel discernimento in questi momenti, dopo che un segno di Croce e l’invocazione della Trinità sono tracciati nella mente e nel cuore.

Sono queste le mie piste che mi danno la certezza di cogliere quel ‘quid’ che ti fa collocare tutto nella giusta posizione, come tasselli di un mosaico e che ti crea sicurezze nelle tante insicurezze di una professione che è scienza ed arte, sintomatologia ed intuito. Quante volte una malattia che avevo giudicato inguaribile ecco che mi guarisce sotto gli occhi, ed una malattia lieve, della quale avevo sorriso, ecco che mi sfugge di mano. Ma la mia incertezza sul male proviene, credo, da un’altra mia incertezza. Non è la sapienza del male che mi fa difetto, ma la continua sapienza di Lui. Se io mettessi Lui nel bilancio di ogni malattia scorrerebbero via secondo le regole, mai violate, di questo grande libro” (Mauro Bartolo).

E quando si è incamminati su questa strada la Medicina diventa lo strumento che ci fa crescere come persone, che da molto al paziente, ma che dà moltissimo a noi medici; la medicina, “un amore d’accatto, una passione entratami nel cuore dalla parte del cervello che come una droga ci esalta nell’esistenza. E quando le scelte razionali subiscono il sigillo e l’incentivo dell’irrazionale non vi è più scampo. (prof.Bartolo).

 

LA VISITA

Il malato o presunto tale sente dentro, lo avverte e poi  palpa l’interesse che si ha per la malattia, ti guarda, ti scruta. E guai a perdere l’entusiasmo. Guai ad impastoiarsi, a compiere atteggiamenti meccanici, anche se fatti bene, con vera Arte.

L’amore per ciò che si fa, per la propria professione è quello che dà senso, soprattutto quando si è di fronte a patologie vasali molte volte secondarie a patologia a tratti indomabili, quali l’ipercolesterolemia di origine genetica omozigotica, il diabete con alterazioni post-recettoriali che sconvolgono irreversibilmente l’organo endotelio.

E’ lì, è proprio lì che sempre di più ( e non solo per un fatto speculativo!) “vorrei rinchiudermi nell’alvo delle arterie dei miei malati: come avrei voluto farmi cellula per spiare gli anfratti di quei canaloni, per carpire il segreto di quei grossi placconi sclerotici che stridevano al taglio delle forbici d’autopsia, per assistere al depositarsi delle prime goccioline di grasso sotto la tunica endoteliale, per poter bloccare le altre goccioline, che non gonfiassero la placca, che non chiudessero l’arteria, che non interrompessero la via al sangue, che quei malati non iniziassero ad urlare, notte e giorno per le loro necrosi” (prof.Bartolo).

Attenzione, dico anche a me stesso: c’è il pericolo di amare la malattia e non il malato, di invaghirsi del caso clinico e non della persona. E’ difficile stare sempre sulla retta via, è facile confondere le due cose e credersi  o farsi credere un medico buono. Signore, mio Dio, abbi pietà della mia pochezza.

 

IL RAPPORTO MEDICO-MEDICO

Nella mia attività mi capita frequentemente di visitare pazienti inviatimi da diversi colleghi che, bontà loro!, vogliono conoscere il mio parere. Questo mi pone in atteggiamento ancor più di umiltà. Se mi inorgoglisce al saperlo, mi rende ancor più umile nell’approccio e nella diagnosi e nella terapia.

Occorre anche e soprattutto in questo caso che il medico non deve essere presuntuoso, ma sapere che il “vero guaritore è Dio”(Codice Islamico),

  • “non deve calunniare un altro medico, deve proteggere i segreti e non rivelarli (visa, audita, intellecta arcana sunt), non deve mai intestardirsi sul proprio punto di vista, persistendo nel proprio errore o sbaglio, ma deve, se possibile, consultarsi con medici più competenti ed appurare i fatti;
  • se un medico che lo ha preceduto conosce meglio il paziente o la malattia, deve incoraggiare il paziente a tornare dal medico precedente;
  • non deve nutrire pregiudizi nei confronti di nessun  metodo di cura e non deve mai continuare un trattamento sbagliato;
  • nella cura delle malattie deve usare tutta la scienza medica e non prescrivere farmaci se non quando la malattia e la cura non fanno progressi;
  • non deve far sentire obbligati studenti e pazienti;
  • non deve mai pretendere di essere in grado di guarire qualcuno che si sia ridotto in miseria passando da un medico all’altro, e mettere un questo modo a repentaglio la propria reputazione.

 

Concludo con la preghiera che il Pontefice Massimo, Papa Giovanni Paolo II, ha composto per i medici nell’Anno Santo 2000:

Signore Gesù, Medico Divino, che nella tua vita terrena hai prediletto coloro che soffrono ed hai affidato ai tuoi discepoli il ministero della guarigione, rendici sempre pronti ad alleviare le pene dei nostri fratelli. Fa che ciascuno di noi, consapevole della grande missio0ne che gli è affidata, si sforzi di essere sempre, nel proprio quotidiano servizio, strumento del tuo amore misericordioso. Illumina la nostra mente, guida la nostra mano, rendi attento e compassionevole il nostro cuore. Fa che in ogni paziente sappiamo scorgere i lineamenti del tuo Volto Divino.

   Tu che sei la Via, donaci di saperti imitare ogni giorno come medici non soltanto del corpo, ma dell’intera persona, aiutando chi è malato a percorrere con fiducia il proprio cammino terreno, fino al momento dell’incontro  con Te.

   Tu che sei la Verità, donaci sapienza e scienza, per penetrare nel mistero dell’uomo e del suo trascendente destino, mentre ci accostiamo a lui per scoprire le cause del male e per trovarne gli opportuni rimedi.

   Tu che sei la Via, donaci di annunciare e testimoniare nella nostra professione il “Vangelo della Vita”, impegnandoci a difenderla sempre, dal concepimento al suo termine naturale, ed a rispettare la dignità di ogni essere umano, specialmente dei più deboli e  bisognosi.

   Rendici, o Signore, buoni Samaritani, pronti ad accogliere, curare e consolare quanti incontriamo nel nostro lavoro. Sull’esempio dei Santi Medici che ci hanno preceduto, aiutaci ad offrire il nostro generoso apporto per rinnovare costantemente le strutture sanitarie.

   Benedici il nostro studio e la nostra professione, illumina la nostra ricerca ed il nostro insegnamento. Concedi infine che, avendo costantemente amato e servito Te nei fratelli sofferenti, al termine del nostro pellegrinaggio terreno, possiamo contemplare il tuo volto glorioso e sperimentare la gioia dell’incontro con Te, nel tuo Regno di gioia e di pace infinita. Amen.

                                                                                  (Giovanni Paolo II)